Ormai, sono quasi vent’anni che ho iniziato la mia avventura professionale come business coach e ancora avverto una certa diffidenza verso questa professione.

Probabilmente, le troppe derive pseudo-professionali, più o meno supportate da adeguata preparazione ed esperienza, hanno contribuito a rendere opaca la figura del business coach e poco credibile il suo ruolo. Il ragionamento più diffuso e, per certi versi, naturale è il seguente: “se io so fare una cosa, non ho bisogno di un coach. Se non la so fare, ho bisogno di qualcuno che me la insegni. Quindi, a che serve un coach?”

Inutile dire che per i più accorti salta subito all’occhio l’equivoco tra coaching, mentoring, consulenza e formazione, ma il tema va oltre.

La nostra cultura aziendale, a dispetto di quanto non si proclami in riunioni, manifestazioni e articoli autoreferenziali, è fortemente legata al concetto di “conoscenza tecnica” e di “sapere manualistico”. In estrema sintesi, il ragionamento più diffuso che dirigenti e manager fanno è il seguente: “ha imparato, quindi sa fare. Ne consegue che farà”.

Rimane completamente esclusa da qualsiasi ragionamento la componente motivazionale e implementativa.

La conoscenza non modifica nulla se non è incanalata in una serie di comportamenti finalizzati alla realizzazione.

La relazione tra saper cosa fare e farlo è tutt’altro che immediata e richiede un lavoro di profonda modificazione di se stessi.

Si tratta di lavorare sulla propria determinazione e volontà.

Significa cambiare i propri modelli comportamentali e sottoporli a costante verifica.

Come ricorda Marshall Goldsmith, sono necessari coraggio, umiltà e disciplina.

È necessario un approccio metodologico fatto di continue messe a punto del proprio comportamento.

Non si tratta più di imparare (solo) a fare qualcosa, si tratta di prendere in mano se stessi e iniziare un processo di sviluppo di abilità che possono solo essere elaborate interiormente. Non sono acquisibili solo leggendo un manuale.

Appare subito evidente che non si tratta di un compito semplice e che è quasi impossibile fare da soli.

Ecco a cosa serve un coach: ad offrirsi come sponda professionale per supportare il coachee nella sua fase di crescita e trasformazione.

Il coach agisce da stimolo esterno e mantiene sempre viva la rotta di riferimento. Lavora sulle potenzialità del coachee e offre un riferimento metodologico del quale si fa garante per il successo del proprio cliente.

Dall’iniziale identificazione degli obiettivi a tutte le successive fasi di follow-up, il coach vigila costantemente sulla coerenza del percorso iniziato dal cliente e si assicura che lo stesso raggiunga gli obiettivi stabiliti.

È questo fondamentale supporto che porta al successo del coachee.

Quindi, sicuri di non aver bisogno di un coach?

Giuseppe Andò

Giuseppe Andò

C-level, Executive, Team & Career Coach. Associate Coach Marshall Goldsmith Stakeholder Centered Coaching. Member of Board EMCC Italia (European Mentoring & Coaching Council).