Il mondo del lavoro contemporaneo è alle prese con una crisi silenziosa ma sempre più diffusa. I dipendenti non sono semplicemente disimpegnati: si stanno chiedendo se ciò che fanno abbia davvero un senso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ogni anno si perdano ben 12 miliardi di giornate lavorative a causa di ansia e depressione, mentre un lavoratore su quattro, a livello globale, manifesta sintomi di burnout. Dietro questi numeri si nasconde un problema più profondo: le persone non si sentono più viste, apprezzate, né collegate a qualcosa di significativo.
I segnali sono ovunque. Il lavoro da remoto ha cancellato i saluti nei corridoi. L’intelligenza artificiale risponde più in fretta del proprio capo. E in un contesto di incertezza economica e globale persistente, anche i professionisti più motivati iniziano a dubitare che i loro sforzi abbiano un reale impatto. Questa epidemia dell’insignificanza non è solo una questione di salute mentale: è un campanello d’allarme culturale e strategico.
Ma esiste una via d’uscita. Secondo Hogan Assessments, leader mondiale nella valutazione della personalità in ambito lavorativo e nella consulenza per la leadership, le organizzazioni possono ritrovare visibilità, scopo e motivazione, a patto di essere disposte a ripensare il proprio modo di guidare, assumere e supportare le persone. Ecco cinque strategie basate sulla scienza della personalità che affrontano le vere cause di questa crisi.
1. I leader devono essere persone, prima ancora che capi
Diciamolo chiaramente: nessuno si apre in un ambiente freddo o puramente transazionale. Il presupposto per una connessione autentica sul lavoro è la sicurezza psicologica. Quando i leader mostrano vulnerabilità, si assumono le proprie responsabilità e ascoltano con intenzione, trasmettono il messaggio che essere onesti e umani è possibile. Eppure, secondo recenti ricerche, solo 1 dipendente su 5 ritiene che il proprio datore di lavoro si preoccupi davvero del suo benessere.
Le ricerche di Hogan mostrano che, sotto pressione, i leader tendono a ricadere in comportamenti controproducenti come il distacco, l’eccessivo controllo o l’aggressività. Azioni che possono sembrare difensive sul momento, ma che finiscono per minare la fiducia e creare distanza.
“Le persone non hanno bisogno di leader perfetti, ma di leader onesti,” afferma Allison Howell, Vicepresidente Market Innovation di Hogan Assessments. “Quando i leader si tolgono l’armatura, i collaboratori si sentono liberi di portare sé stessi al lavoro. È lì che nasce la fiducia.”
Comprendere i propri modelli di leadership—quelli che generano fiducia e quelli che la compromettono—è il primo passo per creare una cultura in cui le persone possano sentirsi pienamente accolte.
2. Assumere in base ai valori, non solo alle competenze
Avere l’esperienza giusta è importante, ma è il senso di appartenenza a uno scopo comune che determina il successo a lungo termine. L’MVPI (Motives, Values, Preferences Inventory) di Hogan aiuta le organizzazioni a comprendere cosa conta davvero per le persone: cosa le motiva, quali valori le guidano e cosa dà significato al loro lavoro.
Quando i dipendenti percepiscono un legame chiaro tra ciò che fanno e un obiettivo più ampio, si impegnano con maggiore energia, responsabilità e motivazione. Al contrario, senza quella connessione, anche i migliori talenti rischiano di perdere la rotta.
“Le persone vogliono sapere che ciò che fanno ha valore e contribuisce a qualcosa di più grande,” spiega Howell. “Quando lo scopo è chiaro e condiviso, la motivazione segue.
Assumere in base ai valori significa costruire team che credono nella missione aziendale. Non si tratta solo di capacità, ma della volontà di far parte di ciò che l’organizzazione vuole realizzare.
3. Non bruciare i migliori: anche l’engagement ha un lato oscuro
L’engagement viene solitamente celebrato, ma un eccesso può diventare pericoloso. I dipendenti più motivati tendono a spingersi oltre, a prendersi troppi carichi e a esaurirsi. Secondo una ricerca globale, il 52% dei lavoratori ha manifestato sintomi di burnout lo scorso anno. Ironia della sorte, proprio chi ci tiene di più è spesso il più vicino a mollare tutto.
Le valutazioni Hogan dimostrano che comportamenti come il perfezionismo, l’eccessivo bisogno di risultati e l’iper-responsabilità, se portati all’estremo, possono condurre a rigidità, sovraccarico ed esaurimento emotivo—soprattutto sotto stress.
“La motivazione è preziosa, ma va protetta,” afferma Howell. “Le organizzazioni devono saper riconoscere quando la passione si trasforma in pressione. Non tutti daranno segnali evidenti quando stanno andando in burnout.”
Attraverso l’analisi dei dati di personalità, le aziende possono identificare precocemente i rischi e aiutare le persone a incanalare le proprie energie in modo più sostenibile.
4. La valutazione annuale è troppo tardi: serve un dialogo settimanale
Un feedback ritardato è un feedback negato. Negli attuali ambienti ibridi, può capitare che i dipendenti trascorrano settimane senza ricevere un riscontro significativo. Eppure, secondo Gallup, solo il 21% dei lavoratori riceve feedback settimanali di valore, ma chi li riceve mostra un engagement più alto del 79%.
Non tutti però reagiscono allo stesso modo al feedback. Alcuni desiderano riconoscimenti frequenti, altri preferiscono autonomia. I dati Hogan aiutano i manager a modulare l’approccio in base alle caratteristiche di ciascuno.
“Il feedback deve essere pensato, tempestivo e personalizzato,” spiega Howell. “Ciò che motiva una persona può mettere sotto pressione un’altra. Quando i manager comprendono le differenze di personalità, il feedback diventa più efficace—e porta a cambiamenti duraturi.”
Fornire ai manager gli strumenti per personalizzare il proprio modo di dare feedback rafforza la fiducia e migliora i risultati. Non si tratta solo di frequenza, ma di dare valore a ogni conversazione.
5. Basta promuovere i capi sbagliati. Valuta davvero chi guida i team
Molte organizzazioni promuovono in base alla visibilità, alla sicurezza di sé o all’anzianità. Ma queste qualità non garantiscono una leadership efficace. In realtà, tra il 50% e il 75% dei manager è considerato non qualificato o addirittura dannoso per la cultura del team (fonte). Ignorano i problemi, si prendono meriti non loro, aggirano le regole e prosciugano emotivamente le persone. Le conseguenze sono tangibili: 8 dipendenti su 10 hanno pianto sul lavoro e quasi la metà attribuisce la causa a un cattivo capo (fonte).
La ricerca Hogan distingue tra leadership emergence (chi si fa notare) ed effectiveness (chi sa davvero guidare). Senza dati oggettivi, le aziende rischiano di promuovere persone che minano la cultura anziché rafforzarla.
“La vera leadership non si misura con il carisma, ma con il carattere”, afferma Howell. “Utilizzando strumenti come il feedback a 360 gradi, i dati di personalità e le analisi di team, le organizzazioni ottengono una visione più accurata di chi costruisce fiducia – e di chi la sta silenziosamente distruggendo.”
Gli audit sulla leadership non servono a puntare il dito, ma a rafforzare la cultura e fermare la disfunzione prima che si diffonda
Conclusione: allineare le persone a uno scopo e farle sentire viste
L’epidemia di insignificanza non è invisibile. Si manifesta con assenteismo, ansia, morale basso e abbandono silenzioso. Ma quando le organizzazioni utilizzano la conoscenza della personalità per costruire la sicurezza psicologica, allineare i valori, gestire saggiamente l’impegno e sostenere una leadership efficace, le persone si sentono di nuovo legate non solo al loro ruolo, ma anche allo scopo più ampio che sta dietro al loro lavoro.
“In Hogan non ci limitiamo ad aiutare le organizzazioni a migliorare le prestazioni. Le aiutiamo a capire le persone che stanno dietro al lavoro”, dice Howell. “Perché quando le persone si sentono viste, non solo restano, ma crescono”.