Su 100 imprese familiari che nascono, solo 15 vedono la terza generazione, dopo che 70 non hanno visto neanche la seconda. I numeri ci dicono dunque che il passaggio generazionale non è per nulla un processo naturale e proprio la natura umana ne ostacola il buon esito.

I numeri ci dicono anche che la portata del tema è tutt’altro che irrilevante per la folta popolazione di imprese familiari italiane: nei prossimi 5 anni squisite ragioni anagrafiche degli imprenditori attualmente al comando richiederanno un passaggio di mano in almeno una azienda familiare su cinque.

A fronte di un certo numero di imprese familiari responsabili, che hanno coltivato per tempo una cultura dell’impresa quale entità distinta e relativamente autonoma dalla famiglia, privilegiandone la continuità, abbiamo una miriade di piccoli e medi imprenditori che faticano ad abbracciare anche solo l’idea di una successione, scegliendo il più delle volte la sterilità delle non-decisioni, quando non addirittura azioni inibitorie delle iniziative delle nuove generazioni. Nel caso di una cultura responsabile assistiamo alla progressiva apertura a capitale e management esterni, quando si abbia consapevolezza che le risorse e le competenze presenti in famiglia non siano sufficienti a garantire competitività e sviluppo di lungo termine. Per contro un atteggiamento imprenditoriale irresponsabile – perché di questo si tratta, pur riconoscendone l’umanità – procede fondamentalmente dalla concezione che l’impresa sia a disposizione e strumentale agli interessi della famiglia, fino ad arrivare a degenerazioni come l’abuso degli assets dell’impresa per fini personali.

Il tema del passaggio di mano e della governance come presidio della continuità, non è altro che quello della pianificazione lucida e tempestiva del trasferimento della capacità di avere successo. Che la ricetta dia poi continuità all’impresa in cui è stata declinata, o serva per far nascere nuove imprese o ancora venga trasmessa ai posteri, saltandone l’utilizzo per qualche giro di tavolo, è una questione che solo la famiglia può decidere. Quella decisione però – per la naturale difficoltà di essere presa in piena consapevolezza e razionalità – deve essere integrata dal contributo di un team di professionisti esterni esperti, che supportino la famiglia imprenditoriale in un processo che (come il testamento) richiede di essere pensato, preparato e realizzato nel pieno delle proprie facoltà.

Il mandante della continuità, prima che arrivino ad esserlo la natura o il mercato, è senza dubbio l’imprenditore in attività. La prospettiva successoria è una trappola psicologica, pur umanamente comprensibile, che condiziona tante scelte (o non-scelte) strategiche dell’imprenditore, perché insidia l’idea – fino a doverla distruggere, per potersi fare strada – che l’impresa sia una personale emanazione, ed in quanto tale imperitura ed inseparabile dal nome della famiglia che la identifica. I nostri bisogni fondamentali sono legati a esigenze fisiologiche naturali e primarie come fame, sete o sonno. La relazione intorno ad essi crea vincoli estremamente forti, generando un grande senso di responsabilità in chi li soddisfa, sia essa la mamma col bambino o l’imprenditore con le sue persone, non a caso “dipendenti”. Il senso di responsabilità verso famiglia e dipendenti – cui garantire un futuro almeno dignitoso, se non di opportunità e di successi – fa spesso vibrare le intime corde a tal punto, da inceppare – consapevolmente o meno – i meccanismi della delega o della continuità dettati dal calcolo economico e sociale del valore di impresa. Allentare un certo tipo di presa sull’impresa – delegando, o lasciando spazio per un avvicendamento o semplicemente ritirandosi – diventa come rinunciare a se stessi, e questo fa spostare più in là possibile nel tempo la codifica della propria cifra nel fare impresa. A dimostrazione che l’emotività la fa da padrona, l’indagine AIPB 2018 ci porta direttamente la voce degli imprenditori italiani:

A chi, viaggiando sulle autostrade austriache, non è capitato di fermarsi almeno una volta in una delle aree di servizio, Rosenberger o Landzeit? Ebbene l’ex rallysta Kris Rosenberger ha raccolto nel 2003 la prematura eredità dell’impero familiare della ristorazione (creato nel 1972 dai fratelli Heinz e Wolfgang senior), proseguendo nella linea della crescita disegnata dal padre. Nell’asse ereditario c’era però anche il cugino Wolfgang junior, che con Kris si è scontrato sulla strategia di sviluppo (divergenza già presente nella generazione precedente, ma anestetizzata in nome del buon vivere familiare). E’ così che Wolfgang e sua sorella hanno pensato bene di sviluppare in autonomia lo stesso business sotto il nome concorrente Landzeit. Investimenti oculati ed una strategia orientata alla qualità dei prodotti ed all’attenzione per il cliente – rispetto alla scriteriata ricerca di volumi ed economie di scala inseguite da Rosenberger – hanno portato nel 2019 Landzeit a diventare un potenziale acquirente della oramai traballante catena del cugino. Schiacciato dai debiti e da una profittabilità incoerente con gli investimenti effettuati, infatti, Kris ha dovuto vendere nel 2013 ad investitori cinesi, nelle cui mani l’impresa è fallita.

Tocca ora alla holding di partecipazioni viennese Connexio – subentrata al fallimento e già gestore in Austria di Burger King – rilanciare il business o cercare un nuovo acquirente. Chissà che Wolfgang non si faccia ingolosire!

Se è dunque dall’imprenditore che un processo successorio deve partire, difficilmente questo impulso prenderà forza da solo, se non alimentato da chi dall’imprenditore ha la piena fiducia. La sfida è soprattutto personale e relazionale, prima che industriale e finanziaria e la razionalità economica è spesso secondaria rispetto alla complessa dinamica delle famiglie e dei loro membri. Lasciamoci aiutare.

Se non vogliamo che la nostra impresa esista nella sola misura in cui siamo ad essa e in essa presenti, sforziamoci di pianificare per tempo la sua destinazione, oltre la nostra misura. Discutere di continuità di impresa significa, infatti, avere consapevolezza del suo valore: per l’imprenditore, per gli stakeholders, per il contesto economico e per il ruolo sociale che ne abilita la capacità di “fare sistema”.

[Articolo liberamente tratto da R-INNOVARE IL FAMILY BUSINESS. L’INTELLIGENZA NATURALE DELL’IMPRENDITORE COME DIFFERENZIALE COMPETITIVO, Edizioni Guerini e Associati 2019]

Alessandro Scaglione

Alessandro Scaglione

Alessandro Scaglione è esperto di imprese familiari, dove ha lavorato per più di vent’anni come dirigente al fianco di diversi imprenditori. Laureato in Ingegneria Gestionale, ha frequentato cum laude il master in General Management al mip del Politecnico di Milano e, nel 2018, ha creato Consiliator, società che intende diffondere un modello distintivo di cultura, formazione e servizi dedicati al family business.