“Made in Italy è un’indicazione di provenienza che indica l’origine di un bene in base alle disposizioni comunitarie in materia di origine non preferenziale di un prodotto ed in questo caso riferite ai prodotti che hanno origine in Italia”. – WIKIPEDIA

Spesso nella cultura prevalente italiana, e nella comunicazione mediatica mainstream, il termine Made in Italy viene ricondotto a prodotti di consumo appartenenti prevalentemente alle filiere del cibo, della moda, del design e dell’artigianato italiano in generale, tralasciando, di conseguenza, altri ambiti industriali di eccellenza italiana che costituiscono per il nostro Paese un grande vantaggio competitivo.

Tuttavia, se guardiamo ai dati delle esportazioni dei beni italiani e agli ecosistemi produttivi industriali, ci rendiamo conto che le opportunità di crescita del nostro Paese nel futuro – così come nel passato – risiedono anche altrove, ovvero in quella che chiamiamo l’industria del Deep Tech: l’insieme di tecnologie innovative e di frontiera, originali – fondate su scoperte scientifiche, sull’ingegneria, la matematica, la fisica e la medicina –  che possono avere un impatto profondo nella vita delle persone e della società.

L’analisi dei dati rivela che su circa 430 miliardi di euro di esportazioni complessive rispetto a tutti i comparti produttivi italiani, soltanto 28 miliardi appartengono alla filiera alimentare e 37 miliardi al settore tessile  & abbigliamento, mentre se consideriamo le esportazioni dei Beni di Investimento – ovvero meccanica strumentale, mezzi di trasporto (tra cui automotive), elettronica e altri comparti tecnologici minori – e dei Beni Intermedi – ovvero chimica, metalli, materiali plastici e industria estrattiva – il valore delle esportazioni è pari a 287 miliardi. Se ancora vogliamo considerare anche solo un sottoinsieme tecnologico tra questi, possiamo scegliere tra i 57 miliardi di esportazioni attribuiti all’industria chimica italiana, i 37 miliardi dell’industria elettronica ed elettrica e gli 81 miliardi dell’industria meccanica (valori sempre indicati in euro). È dunque proprio grazie a questi numeri, e non solo a quelli relativi ai settori del fashion e del food, che l’Italia è leader in Europa per produzione ed esportazione di beni industriali, seconda solo alla Germania.

Se leggiamo ancora l’Italia attraverso questi numeri, è evidente che qualcosa non funziona nella comunicazione delle eccellenze del nostro Paese, su cui torneremo in seguito, ma soprattutto è necessario chiedersi quali e quante competenze tecnico-scientifiche debba avere l’Italia per riuscire, nonostante gli annosi problemi delle piccole e medie aziende, a competere con i colossi industriali europei e, soprattutto in alcuni settori per noi strategici, extra europei? La risposta è tutta qui: nell’eccellenza della ricerca scientifica italiana e nelle capacità delle PMI insieme alle grandi imprese di ideare, progettare e innovare. Bisogna, però, dire che gli investimenti in Ricerca & Sviluppo nel nostro Paese e i trend di crescita dei livelli di qualità della Ricerca stessa, sia pubblica che privata, non sono proporzionali tra loro.

La Ricerca & Sviluppo come uno degli acceleratori dell’innovazione

Nonostante, infatti, l’Italia investa in R&S meno della media Europea (1,4% del Pil contro il 2,1 dell’Ue e il 2,5% dell’Ocse), è in realtà ben posizionata all’interno del 10% dei Paesi le cui pubblicazioni scientifiche sono tra le più citate al mondo.

L’Italia, inoltre, possiede un numero di ricercatori nettamente inferiore a quello degli altri Stati (ce ne sono 6,3 ogni 1000 occupati contro l’8,9 della media Ue e Ocse), ma, nonostante ciò, riesce a produrre una ricerca di qualità e decisamente competitiva. La ricerca italiana è un volano per la crescita del nostro ecosistema industriale: benché spesso considerata un argomento elitario, la ricerca – grazie alla qualità dei suoi risultati scientifici – rappresenta, infatti, uno degli strumenti più importanti di creazione di valore economico, poiché abilita la progettazione dei nuovi prodotti e servizi tecnologicamente avanzati, e decisamente Made in Italy.

Per fare un esempio attuale, basti solo pensare che l’Italia è riconosciuta come uno dei cinque migliori Stati al mondo per la produzione scientifica relativa al Covid; ciò è quanto emerge dalle classifiche degli analisti di QS Quacquarelli Symonds che forniscono un’analisi comparativa sulle prestazioni di 13.883 programmi universitari di 1440 Università.

Tuttavia, quando si tratta di passare dalla ricerca all’impresa, siamo degli innovatori moderati

Di fatto, all’interno della ricerca scientifica italiana un ingranaggio – probabilmente uno dei più importanti – sembra non funzionare: accanto all’eccellenza della letteratura e dell’elaborazione degli Studi non troviamo la capacità di inserirsi nel mondo competitivo delle aziende, ovvero di trasferire il risultato della ricerca scientifica al mondo imprenditoriale. Le ragioni non riguardano soltanto l’approccio alla missione della ricerca stessa, bensì ne è causa l’intero sistema industriale italiano poco incline a collaborazioni con il mondo accademico e, soprattutto, sempre più restio a investimenti in R&D proveniente dall’esterno della propria azienda e, infine, anche la debolezza strutturale del sistema finanziario italiano nel settore del Venture Capital; è chiaro che questo crea un effetto domino sul valore della produzione di brevetti industriali, che continua ad essere al di sotto di Paesi come Germania e Francia (4.600 brevetti di aziende italiane depositati all’Ufficio Europeo dei Brevetti nel 2020, contro i 25.954 della Germania e i 10.554 della Francia).

Il ruolo del trasferimento tecnologico

Il più recente rapporto dell’ISTAT sul tema R&S in Italia, riferito al 2018-2020, si apre con un dato apparentemente positivo: rispetto al periodo precedente, l’Italia ha speso in ricerca e sviluppo 25,2 miliardi di euro, con un aumento del 6% rispetto al 2017. Il tallone d’Achille, dunque, del sistema della ricerca italiana – e quindi del livello di innovazione del Paese – è la sua scarsa capacità di trasferimento tecnologico e di relazione con le imprese.

Questo deficit ha due conseguenze: (a) la ridotta capacità brevettuale e di innovazione industriale, (b) la scarsità di investimenti e co-investimenti privati nella ricerca, che tipicamente avvengono grazie alla collaborazione con centri di ricerca pubblici. In generale il sistema industriale italiano investe meno di altri Paesi in ricerca ed è caratterizzato da una produzione a basso/medio contenuto di innovazione che penalizza la produttività del lavoro e anche la remunerazione dello stesso. Da qui, si comprende il gravissimo dato circa la fuga dei cervelli dal nostro Paese che la Corte dei Conti ha stimato essere pari a +41,8% negli ultimi 8 anni, pari a circa un milione di persone espatriate.

Cosa si può fare

1. Collaborazione tra ricerca e impresa – Trasferimento Tecnologico

Il PNRR riconosce la centralità dell’educazione e della ricerca nel tessuto economico italiano e prevede di dedicare una Missione al rilancio della crescita, attraverso lo sviluppo delle capacità di impiegare e produrre R&S e tecnologia per rispondere alle sfide tecnologiche e ambientali del futuro. Tra le varie misure di investimento, quelle privilegiate, sono infatti relative agli investimenti in innovazione tecnologica, nel digitale e nella sostenibilità, e in progetti di Trasferimento Tecnologico, ovvero di creazione di partenariati pubblico – privati, che facilitino la collaborazione tra ricerca e impresa, trasformando i risultati della ricerca scientifica in nuovi prodotti innovativi: pane per le industrie italiane del futuro. Il Trasferimento Tecnologico per l’Italia, come per i principali Paesi al mondo (Usa e Israele in primis), rappresenta un’opportunità importante di accelerazione tecnologica e, oggi più che mai, è lo strumento principale per “mettere a terra” concretamente i progetti finanziati dal PNRR italiano, occasione unica e mai più ripetibile per la ripresa post-Covid e lo sviluppo del nostro Paese.

2. Comunicare la cultura dell’Innovazione

In questo contesto una delle nostre principali debolezze risiede nell’incapacità di comunicare la ricerca al di fuori del proprio settore tecnico-scientifico, relegandola nella sua torre d’avorio, ben lontana – contrariamente a quanto accade all’estero – dalle arene del dibattito pubblico. Azioni di comunicazione mirate e relative all’impatto economico, sociale e territoriale della ricerca rappresentano aspetti fondamentali per creare una nuova cultura dell’innovazione, del tutto mancante in Italia, e per delineare un’immagine rappresentativa delle reali eccellenze del nostro Paese, spesso tralasciate solo perché troppo ostiche da capire e da trasmettere. Eppure, per raccontare oggi il nostro paese, bisognerebbe partire dai primi numeri in cima a questa analisi e, da lì, andare  ad esplorare dove siano queste eccellenze scientifiche, cosa potrebbero produrre, cosa già producono e come potrebbero diventare la fucina dei prodotti Made in Italy Deep Tech, sino ad arrivare alle potenziali ricadute su molti mercati anche distanti fra loro.

Basti solo pensare, ad esempio, al caso della ricerca scientifica nel settore dell’Aerospazio che da sempre – si vedano le applicazioni commerciali prodotte dalla NASA negli anni – ha prodotto applicazioni industriali in diversi settori, da quello della salute al clima, dalla robotica alle telecomunicazioni satellitari.

In sintesi, quello che vedo come opportunità, ma molto di più come unica scelta possibile per l’Italia nei prossimi 10 anni per competere nei mercati internazionali, è la creazione di filiere sempre più solide di collaborazione tra ricerca e industria con l’obiettivo di puntare ad un Made in Italy tecnologico, avanzato e di frontiera, da sempre appartenuto all’Italia e poco comunicato, e grazie al quale ancora oggi manteniamo posizioni di vantaggio competitivo in alcune aree industriali altamente specializzate. Accanto al Made in Italy tradizionalmente percepito – anch’esso bisognoso di accelerazione tecnologica – è giunta, quindi, l’ora di affiancare il Made in Italy del futuro, basato sulle competenze della ricerca che abbiamo internamente e su quelle tecnologie di frontiera, Deep Tech, che sono già adesso le nostre eccellenze più preziose. Solo così potremmo fedelmente rappresentare il DNA creativo del nostro Paese.

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Emilia Garito

Emilia Garito

CEO di Quantum Leap e Chairman di Deep Ocean Capital SGR SPA